“Pacchetto completo, tutti inclusi”
“Impressioni e organizzazione del Gruppo Inclusione del CIOFS di Trieste”
13 settembre, primo giorno di scuola, quattro nuove classi prime. Alle nove siamo tutti in palestra. Un colpo d’occhio perfetto! Sembrerebbe la copertina di quei libri scolastici di lingua inglese con studenti e studentesse di etnie diverse, libri in mano, zaini in spalla, sorriso stampato in volto. Sorridono in camera, sorridono al mondo. Sembrerebbe. Se anziché cinque o sei non fossimo quasi cento. Se accanto ai sorrisi non ci fossero facce infastidite o attonite, risate, cellulari con Tiktok e Clash Royale. A noi del CIOFS, la realtà piace di più.
Saluti del direttore, istruzioni da parte dei tutor, tutto in italiano: per ora ciascuno capisce quel che può. Poi ogni classe entra nella propria aula e comincia la conoscenza uno ad uno, ed è subito Babele. Una ragazza bengalese non comprende neanche una parola di italiano, un ragazzo afgano sostiene che il venerdì non verrà a scuola perché è Jumu’a: si va in moschea; una ragazza dell’est Europa è straniera, ma quelli – lo rivela il suo sguardo sostenuto – sono molto più stranieri di lei. Un ragazzo italiano ha imparato un’unica parola, poco gentile, in urdu, e la ripete di continuo ai compagni e al mediatore culturale.
Si fa un gioco di conoscenza. Un lato dell’aula significa sì, l’altro no. Ti piace la pizza? Hai animali a casa? Chi sì, chi no. Ci si sposta da una parte e dall’altra; c’è chi corre, chi si trascina svogliato. Un ragazzo non fa questi giochi da bambini: lui è grande – dice la sua espressione. E forse lo è davvero, tranne che sui documenti. Altre domande, altre risposte. Chi sa l’italiano si acclimata, si tranquillizza – ne ha bisogno: spesso ha esperienze di insuccesso scolastico –; chi non sa la lingua comincia ad orecchiare parole di base.
Hai fatto un viaggio nell’ultimo anno? Frase difficile, va tradotta. Molti ragazzi stranieri vanno sul sì. Hanno fatto un viaggio, loro. Quello che li ha condotti fin qui attraverso monti turchi, mari greci, manganelli croati. Tra gli altri, non molti hanno viaggiato, di recente. Forse alcuni non l’hanno mai fatto. Un lungo viaggio attraverso paesi e continenti è infatti una cosa per pochi molto fortunati e per molti poco fortunati.
Ma anche il gruppo inclusione è un viaggio, un nuovo incontro ogni giorno. Andare in Colombia, in Pakistan, in Cina? Perché mai, quando tutta questa Cina-Pakistan-Colombia, al suono della campanella, si riversa nei corridoi della scuola per sfociare come un fiume nel cortile?
Un viaggio che si ripete e si evolve ogni anno. Nell’organigramma, il Gruppo inclusione esiste solo dall’anno scorso ma i ragazzi stranieri, al CIOFS, si accolgono e si aiutano da sempre. Nel 2015 – racconta una collega con più memoria storica – gli stranieri più in difficoltà erano quattro o cinque in tutta la scuola, magari sapevano già un po’ di italiano, lo si potenziava, si studiavano frazioni e rivoluzione industriale. Oggi gli stranieri che non parlano italiano sono quattro o cinque per ogni classe. Parlare di potenziamento della lingua è un eufemismo: si è imposta l’esigenza di dedicarsi a competenze linguistiche più di base, partendo a volte dall’alfabetizzazione in caratteri latini.
Ho scritto “straniero” troppe volte, pur consapevole che non significa nulla dal punto di vista sociale, umano, didattico. Straniero è il ragazzo nato qui da genitori venezuelani: comprende l’italiano perfettamente e sa che cosa sia l’inclusione molto meglio di quelli che fanno le leggi. Straniera è la ragazza giunta qui dall’Iraq, con la famiglia, sei anni fa: a volte perde un giorno di scuola per fare da interprete ai genitori in banca o col datore di lavoro.
È straniero il ragazzo ucraino arrivato con la madre e con il gatto. Le macerie della loro città sono a meno di un giorno di pullman. È straniera la senegalese che ha finito le medie in francese nel suo paese. Il padre salda tubi ai cantieri navali, ha ottenuto il ricongiungimento familiare, si cura dell’istruzione dei figli e sarà presente ai ricevimenti.
Stranieri con tanto di acronimo sono i Minori Stranieri Non Accompagnati, MSNA. Alcuni sono fuggiti da guerre, bombe, sfruttamento, persecuzioni. Atterrisce scoprire alcuni dettagli della loro vita. Altri MSNA sono scappati di casa a quattordici anni dopo aver visto su Instagram il loro amico in sella a una moto tirata a lucido. “My life in Italy”, recita la didascalia. Ma né la moto né gli abiti erano i suoi, tale è il desiderio di far sapere al mondo che i propri piani hanno avuto successo.
Negli ultimi anni, la presenza di MSNA e di allievi appena ricongiunti è aumentata, e con essa l’impegno che dedichiamo all’insegnamento dell’italiano. Imparare la lingua quanto prima è necessario a vivere e a lavorare e la scuola e si impegna affinché gli studenti stranieri ne prendano atto. “Siamo a Trieste. Non a Londra o a Parigi, dove potete vivere per anni ascoltando solo la vostra lingua” – spieghiamo, con la speranza che la nostra città continui ad essere un luogo di inclusione e non un ghetto.
A inizio anno vediamo a che punto siamo con comunicazione, lessico, scrittura e organizziamo corsi di livelli diversi, che si svolgono principalmente chiamando fuori dalle classi i neoarrivati, nelle ore di discipline che difficilmente capirebbero con la loro attuale conoscenza della lingua. A metà anno, tiriamo le somme e rimescoliamo le classi a seconda dei progressi.
L’italiano però non è abbastanza. Per supportare i ragazzi che sono qui senza famiglia e che vivono in comunità di accoglienza a volte senza sufficiente esperienza, bisogna mobilitarsi anche in altri modi.
Partendo dalle sensibilità e dalle competenze di ciascuno, il CIOFS ha messo in campo la sua capacità di fare rete con aziende, enti, istituzioni, senza però sostituirsi ad esse. A volte, infatti, di questa rete mancano solo alcune maglie: basta un piccolo contributo per risolvere un problema, per evitare che una storia virtuosa si trasformi in un’emergenza. E così, oltre che di formazione e di registri l’attività del gruppo inclusione è fatta di telefonate ad ambasciate e avvocati, di contatti con Caritas e parrocchie, di accompagnamenti in Questura per il rilascio dei documenti, di “Riusciamo a trovare un posto per questo ragazzo ancora per un mese? Lo stage sembra andare bene ed è in vista un contratto di apprendistato”. La conoscenza dei ragazzi e dei loro diritti, un modo di fare calmo e determinato, consentono alla scuola di porsi come presidio di reciproca integrazione tra giovani stranieri e territorio.
Fino ad ora, questa capacità di fare rete e di applicare buone pratiche è stata portata avanti in modo non codificato, non sostenuto da progettualità esterne, bensì come un investimento sul futuro. Il successo di tali modalità e percorsi suscita tuttavia un desiderio di ripetibilità e strutturazione. E quindi parso giusto avere un riconoscimento anche formale da parte delle realtà con le quali la scuola si interfaccia nella forma di una nuova progettualità per continuare ad operare nel migliore dei modi. Un nuovo viaggio anche quest’anno.
Come insegna la mission salesiana, la parola chiave è anche qui “relazione”. Relazione e sostegno che non finiscono con la fine o l’interruzione della scuola. Quando dopo uno o due anni vediamo questi ragazzi al bancone di un bar o in un punto vendita, o anche per strada, mentre vanno al lavoro o tornano a casa, il tono e l’espressione di un “ciao, come va?” hanno un chiaro messaggio: siamo reciprocamente ancora “inclusi” nelle rispettive vite.
Autore: Jacopo Berti